La quasi totalità delle organizzazioni del sindacalismo alternativo ha indetto per il 2 dicembre uno sciopero generale unitario. La piattaforma comune vede in primo piano rivendicazioni come quelle del contenimento del carovita e di un forte incremento dei salari. Il quadro in cui vengono collocate queste rivendicazioni è quello di una dichiarazione di opposizione alla guerra, all’attacco ai diritti e al governo in carica a cui viene formalmente contestato di continuare, persino in peggio, l’opera dei precedenti governi. Lo sciopero ha ricevuto l’adesione della sinistra radicale, di vari gruppi dell’estrema sinistra e di una nutrita serie di associazioni e centri sociali. Contingenti di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e pezzi di movimento relativamente nutriti saranno in sciopero e in piazza, con l’ambizione di supportare una piattaforma che si presuppone rappresentativa degli interessi proletari e popolari.
Di fronte a questo sciopero il problema che si presenta ai comunisti più conseguenti e ai proletari più coscienti è quello della valutazione politica di tale iniziativa e conseguentemente quello di una relativa scelta.
Iniziando dalla questione della scelta, si può sostenere che essa consiste o nel partecipare e cercare di operare all’interno di tale schieramento di forze sindacali, politiche e associative, magari collocandosi con alcuni distinguo critici nella sua ala di sinistra, oppure decidere di non parteciparvi demistificando posizioni e logiche che caratterizzano tale schieramento.
Per quanto attiene alla questione della valutazione dello sciopero, bisogna in primo luogo considerare il carattere generico e quindi fondamentalmente inconcludente delle dichiarazioni di opposizione alla guerra, all’economia di guerra, agli attacchi ai diritti dei lavoratori, al caro-vita, ecc. Rispetto a tutto questo infatti non emerge alcuna parola d’ordine capace di diventare coagulo politico ed organizzativo e concreto riferimento per azioni di protesta di massa in grado di interpretare e rappresentare sentimenti di opposizione diffusi nel paese.
In secondo luogo, la parte della piattaforma più strettamente sindacale è o puramente propagandista o apertamente demagogica. Questo per il semplice fatto che i rapporti reali, caratterizzati dalla crescente crisi del sindacalismo alternativo e dall’assenza di una vera presenza di opposizione nelle fabbriche, evidenziano il velleitarismo degli appelli alla lotta per obbiettivi quali, per es., i “forti aumenti salariali” e il carattere demagogico dei già assai tardivi richiami ai nuovi autunni caldi.
E allora si tratta di capire meglio il reale significato e obiettivo di questo sciopero generale. Dietro il suo carattere apparentemente caratterizzato da consuete logiche rituali si nasconde in realtà un obiettivo assai concreto che è necessario smascherare adeguatamente.
A tale scopo ci viene incontro in primo luogo il percorso tortuoso che ha portato alla decisione dello sciopero del 2 dicembre. Si tratta in sostanza della questione del perché uno sciopero che doveva tenersi in prossimità degli esiti elettorali dello scorso settembre è via via slittato sino al 2 dicembre. I motivi sono chiari e sono stati anche esplicitati nei vari incontri ristretti tra i rappresentanti delle diverse organizzazioni del sindacalismo alternativo. L’esigenza di fondo era quella di evitare che lo sciopero potesse essere interpretato come un’iniziativa di contrapposizione diretta all’affermazione del governo Meloni.
Tutto questo è peraltro ampiamente confermato dalla stessa piattaforma dello sciopero del 2 dicembre. Tale sciopero, se avesse voluto rappresentare un effettivo momento di chiamata alla mobilitazione e alla lotta, avrebbe dovuto porre al centro la questione della caduta del governo fascista. Esistono ovviamente tutti i presupposti per collegare la questione sindacale, quella della lotta contro la guerra e l’economia di guerra a quella della cacciata del governo in carica. Anzi solo questo collegamento avrebbe sostanziato in qualche modo un’effettiva iniziativa sindacale di classe. Invece, lo sciopero del 2 dicembre evita addirittura di parlare del “governo Meloni” come di un “governo fascista” da far cadere nel più breve tempo possibile per evitare che in un modo o nell’altro possa cristallizzare elementi di regime.
Dietro la forma apparentemente classista, anticapitalista antagonistica dello sciopero del 2 dicembre, si nasconde in realtà l’obiettivo di raccogliere la legittimazione necessaria per andare a contrattare direttamente con il nuovo governo. Il vero contenuto dello sciopero del 2 dicembre e il vero messaggio che si cerca di far arrivare nelle sedi governative è quello della disponibilità a calibrare la protesta e la mobilitazione che si ritiene di poter mettere in campo, a partire appunto dallo sciopero del 2 dicembre, nel quadro di una logica di scambio.
Da un lato ci si offre di chiudere gli occhi e di far chiudere gli occhi a giovani e lavoratori sulla questione del fascismo, e quindi ci si candida come gli unici veri portatori di una sostanziale possibilità di depoliticizzazione del conflitto sociale nel quadro della fase che si sta aprendo, dall’altra si chiede di andare ad incrinare radicalmente il monopolio dei diritti attualmente sanciti per i sindacati confederali e quindi ad essi formalmente riservati sul piano normativo.
Questa logica di scambio è stata d’altronde già più volte messa in campo nell’ambito del sindacalismo alternativo e, in forme diverse, ha riguardato tutti i principali sindacati, contribuendo, mediamente, alla loro progressiva decomposizione politica e ideologica, con relativo emergere di modalità e costumi tipici del peggiore sindacalismo confederale.
Fanno parte di queste logiche tutte le teorie abbondantemente diffuse negli scorsi decenni secondo cui i governi di centro-destra erano in fondo più sensibili agli interessi dei lavoratori di quelli del centro-sinistra. Si tratta di teorie che prima hanno trovato riscontro in vari civettamenti con partiti fascio-populisti come Lega e Forza Italia, che hanno legittimato l’ingresso dei fascisti in vari sindacati alternativi e che, successivamente, hanno consegnato interi segmenti di lavoratori iscritti ai sindacati alternativi a forze oscuramente reazionarie, apertamente corporative e semi-eversive come il M5S.
Per non parlare ovviamente di quello che è stato il simbolo di un processo che si stava già incanalando in questa direzione, il Protocollo d’Intesa sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014. Un protocollo che, firmato da USB e da altri sindacati alternativi, sanciva tra l’altro la limitazione del diritto di sciopero.
Dunque si tratta di logiche che da decenni procedono in direzione dell’acquisizione di maggiori poteri di rappresentanza e di contrattazione, tramite politiche volte all’utilizzo delle contraddizioni interborghesi, in particolare quelle relative al rapporto tra le forze fascio-populiste e quelle dei sindacati confederali maggiormente legate al PD. Invece di porre al centro la lotta contro tutte le forze della borghesia, si cerca con una buona dose di meschina furbizia e di delirio di onnipotenza di utilizzare una parte dello schieramento borghese contro il sindacalismo confederale e le forze del centro-sinistra.
C’è però una spiegazione di tale politica. Questo tipo di politica è oggi l’espressione inevitabile e necessaria dell’attuale sindacalismo alternativo. Se tale sindacalismo non si fosse mosso in questo modo e non continuasse oggi a muoversi in questo preciso modo, non avrebbe potuto di per sé sopravvivere. Solo lavorando a ottenere posti di potere, rappresentanza, diritti a scapito del monopolio del sindacalismo confederale, solo cercando di entrare in campo in ordine più o meno sparso o unitario, come una sorta di quarta confederazione sindacale di fatto, solo in tal modo, può sperare di potersi riprodurre, uscire dalla crisi che lo attanaglia ed espandersi.
Questa via è quella che, in altri termini, si caratterizza come la via dell’integrazione nella corporativizzazione di Stato. C’è solo una possibilità alternativa a tutto questo. C’è un’unica possibilità di sviluppare un sindacalismo che, da un lato rifletta e rappresenti gli interessi immediati dei lavoratori e dall’altro si contrapponga alla politica e alla pratica corporativa del sindacalismo confederale e di quello alternativo.
Questa possibilità è legata alla costruzione di un partito di classe, un partito effettivamente comunista, capace di porre al centro la lotta per la rivoluzione democratica popolare antifascista e per la costruzione di un Nuovo Stato. Solo un partito di questo tipo, con una strategia di questo tipo può costruire su scala nazionale un sindacato di classe che realizzi l’unità tra i lavoratori sul terreno dell’organizzazione e della lotta e non su quello della pressione sui padroni e sul governo per ottenere, su base corporativa, miglioramenti, diritti e spazi di rappresentanza sul terreno economico a detrimento dello sviluppo della possibilità di una conflittualità politica di classe.
Il concetto di “corporativismo” svolge un ruolo chiave per la comprensione dell’evoluzione, della crisi e delle attuali dinamiche che caratterizzano il sindacalismo alternativo. In sostanza significa voler raggiungere degli obiettivi sul terreno dell’iniziativa sindacale e della rappresentanza attraverso accordi di scambio con la controparte. Accordi che presuppongono la disponibilità a calibrare e calmierare opportunamente il conflitto, soprattutto evitando che entri sul terreno del conflitto di classe la questione dell’iniziativa e della lotta politica di massa.
È del tutto errato pensare che la lotta economica, in quanto tale, sia necessariamente antagonistica. Al contrario, essa è sempre un possibile terreno per accordi e scambi di favore con la controparte padronale, aziendale e governativa. Ciò che è antagonistico non è la lotta economica, ma quella politica di classe rispetto alla quale una lotta economica di classe è un necessario e indispensabile supporto, in grado di contribuire all’estensione dello schieramento di lotta del proletariato e delle masse popolari.
Il corporativismo in senso lato è l’espressione della trasformazione dello Stato con la nascita e lo sviluppo dell’imperialismo. In particolare nei paesi imperialisti, con i primi del Novecento inizia la trasformazione dell’ordinamento democratico-liberale in ordinamento oligarchico.
Al servizio dell’oligarchia economica e politica del grande capitale si sviluppa di volta in volta o un nuovo ordinamento liberale caratterizzato da un contenuto fortemente reazionario o un ordinamento apertamente fascista caratterizzato da forme di repressione poliziesca su ampia scala e dal sostanziale esaurimento delle forme della rappresentanza parlamentare multipartitica.
In entrambi i casi, quello che accompagna tale mutamento dell’ordinamento istituzionale è lo sviluppo di una società civile di nuovo tipo in cui i partiti, i grandi sindacati, i servizi sociali pubblici, la scuola e l’università, le associazioni religiose, i mass media, l’associazionismo sociale, sportivo, culturale, ecc. si integrano strettamente con la macchina statale burocratico-repressiva controllata dal Grande Capitale Monopolistico di Stato (pubblico e privato). Questa società civile reazionaria ha la funzione di conciliare le diverse classi sociali sotto il profilo del dominio egemonico, dosando anche opportunamente in senso discriminatorio politico e classista, con tutta una serie di relative opportunità di impiego, di micro-privilegi e di offerta di “servizi”, al fine di subordinare, frammentare e passivizzare il proletariato e le masse popolari.
Il processo di corporativizzazione dello Stato si realizza attraverso forme di rafforzamento degli esecutivi, di svuotamento o abbattimento del parlamentarismo, di costituzione e sviluppo di forme istituzionali più o meno sancite giuridicamente che esercitano, al di là di qualsiasi tipo di forme di rappresentanza derivanti da procedure elettorali, un potere influente sul paino legislativo sulla base della confluenza di varie tipologie di cosiddetti “esperti” (banche, amministrazione, ordine pubblico, esercito, istituzioni religiose, ecc.). Il processo di corporativizzazione statale si riflette sul piano ideologico e giuridico nei vari ambiti del diritto (pubblico, commerciale, privato, sindacale), che prevede un disciplinamento organico delle “forze lavoratrici produttive”. L’ideologia corporativa afferma le forze produttive come entità omogenee sotto il profilo sociale ed economico e in ordine al supremo interesse nazionale. In questo quadro si mira a statalizzare le associazioni e le organizzazioni in cui siano presenti ed attive le masse popolari affermando, contemporaneamente, sia il controllo che la repressione e la rimozione della lotta tra le classi. I sindacati definiscono i contratti collettivi di lavoro. La Magistratura del lavoro previene o “risolve” i conflitti di lavoro in un contesto dove sempre più si afferma il divieto di sciopero. Il fine politico ultimo del corporativismo di Stato è la pacificazione reazionaria e fascista del conflitto politico e la preparazione della società per la guerra imperialista.
Le forme classiche relative a questa nuova forma di società corporativa sono emerse negli anni Trenta con “corporativismo” nazi-fascista e quello di impronta sociale, e il cosiddetto New Deal americano. Di fatto sino ad oggi nei paesi imperialisti si sono semplicemente avute configurazioni diverse relative a gradi e situazioni di ibridazione tra queste due forme.
Nei paesi come il nostro, il processo di corporativizzazione successivo alla II guerra mondiale ha portato, attraverso una serie di passaggi qualitativi, allo sviluppo dell’attuale situazione di fascistizzazione dello Stato di cui il governo Meloni è solo un’articolazione per quanto, sino ad adesso risulti anche quella più estrema.
A fronte della crisi generale del capitalismo e della tendenza al fascismo, che riducono gli spazi per l’iniziativa sindacale e spingono il sindacalismo alternativo verso logiche di inserimento nei processi di corporativizzazione di Stato, allo stato attuale il problema principale non è quello sindacale, ma quello della formazione di un partito comunista che si basi, nella lotta contro le deviazioni di destra e di “sinistra”, sul marxismo-leninismo-maoismo.
Senza questo processo costituente è del tutto impossibile arrivare a promuovere l’iniziativa economico-sindacale combinandola adeguatamente con quella politico-egemonica. Questo anche, eventualmente, al fine di poter sintetizzare i risultati del lavoro sindacale dal punto di vista della soggettivazione della classe e quindi della lotta per uno Stato di Democrazia Popolare sulla via del socialismo. Da questo si tratta di trarre la necessaria conclusione che l’iniziativa sindacale deve e può porsi oggi solo come un’attività accessoria rispetto al lavoro per il partito.
NUOVA EGEMONIA